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Lo strano caso degli intermediari del Lavoro

da | Feb 23, 2020 | Riflessioni critiche

Contributo pubblicato presso «Sviluppo Felice» in due tranches: 8 ottobre e 15 ottobre 2018
(L’alchimista che scopra il fosforo, Joseph Wright of Derby, 1771. Derby Museum and Art Gallery, Derby)

Se il 71% della popolazione italiana non accede alla comprensione di un testo mediamente complesso (PIAAC, De Mauro, 2014), se il 59,5 % non legge nemmeno un libro all’anno, e se una famiglia su 10 non ha nemmeno un libro in casa: com’è possibile che l’editoria italiana pubblichi 129 milioni di copie di libri all’anno (Istat, 2017), più 3,8 milioni di copie di quotidiani? Chi li legge di nascosto 2,15 libri all’anno? Al posto di chi?

Paradossalmente, l’editoria si è slegata dallo sviluppo educativo della popolazione: le analisi dei dati di vendita (adulterate dai contributi pubblici, privati e da precise politiche commerciali) non hanno nessuna corrispondenza né con la realtà effettiva dei lettori né con gli effetti del consumo del prodotto-libro: non è vero che 60 milioni di cittadini leggono 130 milioni tra libri e giornali venduti, non è vero che tutto il pubblicato è letto, e non tutto il pubblicato è di un livello tale da concorrere allo sviluppo educativo della popolazione: anzi.

Non si tratta solo di annose antinomie come quantità/qualità, forma/sostanza, dato/realtà, economia/politica… ma di un problema di architettura sociale, a cui lavora tutto un sistema di forze il cui disegno finale nasconde un’ambiguità difficile da interpretare. Ma non impossibile.

Un uguale disallineamento tra dati di mercato e situazione reale – sicuramente in diretto rapporto di causalità con la scolarizzazione e il livello culturale iniziali – lo ritroviamo nel mercato del lavoro, in particolar modo negli intermediari del lavoro: un vero specchio distorto della realtà.

Con circa l’11% di disoccupazione generale (di cui il 33% giovanile e il 32% di inattivi) e il solo 58% della popolazione che lavora (Istat, dicembre 2017): come è potuto accadere che il primo datore di lavoro italiano fosse un’azienda di intermediazione e somministrazione del lavoro (Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire, IlSole24Ore … 5-6 maggio 2016)? Per un confronto proporzionale: la popolazione tedesca che lavora è il 79,2%, e la rispettiva disoccupazione sotto il 4% (Eurostat 2017). In realtà, è solo stata diffusa dai media più accreditati, per vari motivi tutti interessati al clamore, la notizia di alcuni dati scempi, mancanti di contesto e senza alcuna interpretazione, che hanno fuorviato completamente dalla realtà. Decostruirò la situazione per capirla, poi la ricostruirò nel giusto verso: lo scenario reale apparirà profondamente diverso rispetto al quadro entusiasmante dato subito e per vero all’opinione pubblica.

La riforma Biagi ha di fatto introdotto gli intermediari del lavoro per «realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro» (legge 30/2002). Ma dal 2002, quando l’Italia aveva un tasso di occupazione già del 10% inferiore alla media UE, fino a questi ultimi anni post-2008, dove la forbice della disoccupazione è aumentata a causa della crisi, il fil rouge è rimasto inalterato e costante: il dato di fatto del mercato nazionale dell’occupazione è la mancanza di domanda (non c’è lavoro) che produce una ricaduta sull’offerta (aumenta la disoccupazione). Va da sé che manchi il requisito essenziale dell’intermediazione: il flusso tra domanda e offerta. Come può, allora, un intermediario essere il primo datore di lavoro se manca la materia prima delle intermediazioni, cioè il lavoro stesso?

La risposta è complessa, ma sicuramente: col concorso della politica e della sua attività normativa, la quale, con il Jobs Act, ad esempio, ha mostrato palesemente come si adulterano i dati del mercato del lavoro, e si fa apparire una crescita occupazionale al posto di una profonda crisi imprenditoriale. Mi riferisco, è solo un esempio e non voglio soffermarmici, ai contributi statali alle assunzioni a tempo indeterminato, che hanno portato le aziende a forzare la stipula di accordi (illegali) con dipendenti già assunti per esser ri-assunti col nuovo contratto a tutele crescenti, previo licenziamento dai vecchi contratti tutelati dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori; e, sempre senza soffermarmici, ricordo che, terminato il budget dei contributi statali, le assunzioni sono fortemente calate, mentre sono aumentati i licenziamenti (non più tutelati)…

Il punto della questione è che gli intermediari del lavoro (Agenzie per il Lavoro che svolgono attività di somministrazione e ricerca e selezione) sono soggetti privati per legge, vere e proprie aziende che svolgono a tutti gli effetti attività di profitto. La loro nicchia è ritagliata in un’attività cruciale nel panorama dello sviluppo nazionale perché gestisce domanda e offerta di lavoro, e gli è consentito farlo a condizioni speciali rispetto a quanto la legge non consenta alle altre aziende (per esempio nell’iterazione dei contratti a tempo determinato), il che induce le aziende a servirsi dei loro ‘super-poteri’ per sgravarsi la responsabilità del rapporto personale col lavoratore: questa via preferenziale, insieme agli altri elementi che illustrerò, evidenzia chiaramente che il sistema, per funzionare, ha bisogno di un sistemico attore anti-sistema che regola il sistema e le regole bypassando entrambi. È un loop sostanziale che gioca il suo strano illusionismo a scapito della collettività.

II

Se da una parte gli intermediari del lavoro gestiscono domanda e offerta, dall’altra è palese che i loro datori di lavoro siano le aziende: traggono cioè sostanza dal comparto più in difficoltà, che si voleva aiutare. Ciò fa degli intermediari dei soggetti passivi e improduttivi del sistema-lavoro. Da una parte, nonostante l’esiguità della domanda, vendono un servizio che le aziende potrebbero e dovrebbero svolgere in autonomia, dall’altra non creano un valore aggiunto perché il loro valore aggiunto (cioè gratis) è l’appropriazione dell’offerta, che è già sulla piazza in attesa, costretta dal sistema a ricorrere a loro. In sostanza, il vero valore aggiunto degli intermediari sono i super-poteri che la legge conferisce loro perché possano, attraverso una distorsione, dare l’idea di raddrizzare la stortura del sistema. In più, la comodità della loro funzione mantiene in uno stadio ancora involuto quel settore dell’impresa che dovrebbe al contrario svilupparsi ed equilibrare sviluppo del profitto e comportamento etico: le Risorse Umane. Sono le Risorse Umane, il reparto bifronte per natura, le sole a conoscere approfonditamente la pancia dell’azienda e proprio per questo dovrebbero avere un rapporto diretto, non mediato, con le sfaccettate possibilità del mercato del lavoro.

Ma sono anche le politiche interne dell’impresa, in cattiva compagnia con la politica, le responsabili dell’autolesionismo imprenditoriale. Il costo delle selezioni, il tempo richiesto, le competenze necessarie, la forza che acquisirebbero le Risorse Umane se si desse loro la possibilità di agire secondo coscienza, non solo secondo budget: sono tutti elementi a favore della scelta dell’intermediario. Il quale, sia chiaro, agisce per profitto e non mai per aiutare il suo datore di lavoro nello sviluppo (men che meno il suo mezzo, i disoccupati), assumendosi il rischio di scelte complesse ma lungimiranti.

E così arriviamo al paradosso del paradosso: dati alla mano, il canale “Agenzie Per il Lavoro” usato da chi cerca lavoro – 30,5% somministrazione, 25,1% le società di selezione – è assai sovradimensionato rispetto al risultato che porta – 5,6% la somministrazione, 1,4% le società di selezione – (Istat 2014). E questo ci riporta alla domanda iniziale: come fanno gli intermediari a intermediare se non c’è il quid dell’intermediazione, cioè il lavoro?

È vero, c’è poco lavoro, ma ci sono molti disoccupati, una componente essenziale del lavoro. I disoccupati sono la materia prima del business degli intermediari. Ma il comportamento degli intermediari nei confronti dei disoccupati è meramente economico: il cliente è l’azienda, il disoccupato uno strumento reperito gratuitamente nel mercato per via della copiosità del numero e delle altre ragioni dette.

È così che i disoccupati che si applicano a centinaia ad un solo annuncio non vedranno mai risposte alle loro candidature: interdetto il canale diretto col datore di lavoro, negato il feedback per sapere cosa è sbagliato nel loro profilo, incapaci di capire cosa devono cambiare per essere accettati… assomigliano così poco alla massa dei migranti che tenta con coraggio la disperata via del mare… Il nostro bel Paese, fiacco e ricurvo sulle sue ultime esigue Risorse, assomiglia più al banchetto di appestati nelle strade portuali del Nosferatu di Herzog: pare attendere la fine senza un moto di rivolta, in piena accettazione delle palesi storture: consuma così la sua ultima cena.

Infine, non posso tacere il fatto che gli intermediari stessi paghino caro questo sistema distorto. Si affollano sull’esiguo pasto ormai migliaia di soggetti accreditati (per alcune fonti più di 4.000, per altre 6.000), e ciò ha prodotto un’aspra lotta intestina tra simili e una crescita polarizzata. Ma la cosa più rimarchevole è che il comparto aziendale tratta economicamente l’intermediario come l’intermediario tratta il disoccupato: e a nessuno, nemmeno alle astratte persone giuridiche, piace esser livellato dal mero tornaconto economico.

La materia lavoro, così incredibilmente inflazionata, perde valore e diventa merce. Anche le aziende, che quel valore devono cercarlo nel mercato e portarselo a casa per vivere e crescere, hanno assunto concetti come l’interscambiabilità e la non indispensabilità delle Persone (divenute ormai Risorse Umane), su cui anche la filosofia degli intermediari poggia.

Di fronte a questo incredibile scenario, cosa dice l’opinione pubblica? Quello che dicono i giornali e i telegiornali più accreditati: che “nonostante il 33% dei giovani siano disoccupati, dobbiamo purtroppo assistere al 32% di inattivi che non hanno voglia di lavorare e son preda dell’esecrabile duopolio di televisione e divano”…

IL TRAUMA DEL RITORNO IN SÈ

Nel seno di un discorso un poco più complesso, mi son permesso di fare questa digressione, spronato dalla rilevanza della cronaca (nera e rosa) e dal proliferare dell’argomento più (ec)citato che discusso seriamente.

Il tema è la relazione Soggetto/Oggetto nella dimensione più alta e profonda che ci sia: quella d’amore.

Che diavolo accade tra amante e amato? Ecco: la prospettiva è, come al mio solito, un poco fuori dal comune, e il taglio interdisciplinare.

È più che ovvio che la relazione Soggetto/Oggetto connessa nel LAVORO (per esempio nella perdita del lavoro) si muove in condizione di sudditanza rispetto al più alto argomento, ed ha tutto di che imparare (e d’altronde i termini che usa il lavoro… passione, amore, empatia, fedeltà, perdita, realizzazione, autodeterminazione… da dove sono desunti?).

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Il senso del lavoro nella vita delle persone – intervista per Toscana Economy

«Toscana Economy» è una rivista attenta alle nuove tendenze e si è mostrata (coraggiosamente) interessata ad approfondire e far conoscere il pensiero e le attività di WiLL©.
L’articolo-intervista si intitola Il senso del lavoro nella vita delle persone: penso che nessuno sia esente dal porsi in prima persona, più o meno esplicitamente, una domanda sul senso come questa.

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