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IL TRAUMA DEL RITORNO IN SÈ

da | Mag 4, 2023 | Riflessioni critiche

Nel seno di un discorso un poco più complesso, mi son permesso di fare questa digressione, spronato dalla rilevanza della cronaca (nera e rosa) e dal proliferare dell'argomento più (ec)citato che discusso seriamente. Il tema è la relazione Soggetto/Oggetto nella dimensione più alta e profonda che ci sia: quella d'amore. Che diavolo accade tra amante e amato? Ecco: la prospettiva è, come al mio solito, un poco fuori dal comune, e il taglio interdisciplinare. È più che ovvio che la relazione Soggetto/Oggetto connessa nel LAVORO (per esempio nella perdita del lavoro) si muove in condizione di sudditanza rispetto al più alto argomento, ed ha tutto di che imparare (e d'altronde i termini che usa il lavoro... passione, amore, empatia, fedeltà, perdita, realizzazione, autodeterminazione... da dove sono desunti?).

©Joseph Stallaert, La morte di Didone, 1872, particolare

Intervista a Cesare Grisi di Mattia Pelli – RADIO DUE – RSI RadioTelevisione Svizzera (22 maggio 2023, 08:45) sul “Trauma del ritorno in sé”, pubblicato da La Rivista Culturale

Questo contributo è uscito su «La Rivista Culturale» il 3 maggio 2023

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IL TRAUMA DEL RITORNO IN SÉ

Quando il Soggetto perde l’Oggetto

Cesare Grisi

La relazione tra Soggetto e Oggetto è un topos della psicologia, della filosofia e in genere delle scienze umane. È connesso colle ragioni prime, o ultime – dipende dalla prospettiva – del senso del vivere umano. Ma da non molto, sempre più e sempre più autorevolmente, anche delle scienze propriamente dette.

Qui accennerò a questi due termini riferendomi al loro coinvolgimento col legame più profondo che ci sia: quello del sentimento dell’amore. Antonio Damasio, il neuroscienziato dell’errore di Cartesio, spiega cosa deve passare tra un’emozione e un sentimento: la neocorteccia. Ovverosia: la consapevolezza, la razionalità. Checché se ne dica, i sentimenti sono anche, soprattutto, razionali: ciò che nasce o transita, diciamo, per il cuore, deve poi arrivare alla cabina di regia: ai piani alti del cervello. Ebbene, il sentire che lega indissolubilmente razionale e irrazionale, cioè il sentimento che non ha l’eguale, è l’amore: su questo non mi pare esistano dei dubbi. E siccome non c’è attività più sopraffina dell’intelletto e del pensiero astratto umano, non c’è opera d’arte che non possa esser ceduta per intero solamente per «un minutino» – per dirla con Dostoevkij – di quel sentimento a cui tutto si può sacrificare… tanto vale ricordarsi, allora, che anche nell’empireo del pensiero, nella poesia, s’arriva fin dove oltre non si può andare: per la signorina Felicita, diceva Gozzano e riecheggiava nel suo teatro Carmelo Bene: «io non voglio più essere io».

Comincerei con una precisazione, diciamo, di natura didattica. La distinzione tra Soggetto e Oggetto è oziosa, si capisce. È un fatto di tempistica, di cronologia fenomenologica, che si compone di quattro momenti fondamentali.

Tutto principia con un primo passo: il Soggetto percepisce l’Oggetto (ovviamente la situazione è bifronte).

Il secondo passo è il riconoscimento reciproco tra Soggetto e Oggetto.

Il terzo è il superamento dell’Oggetto: gli Oggetti diventano Soggetti.

Il quarto è il superamento del Soggetto: i Soggetti si trascendono nell’abbandono, ed accedono ad una dimensione che chiamerò Oltre. È la dimensione della creazione del reale che è solo in potenza, e del disvelamento di tutto ciò che appariva vero ma che invece era falso o convenzionale.

La diade Soggetto e Oggetto è strettamente connessa con altre due coppie di diadi: il Sentire (agente) e l’Oggetto Del Sentire; l’Amore (agente) e la Relazione con l’oggetto. Si delinea così il seguente scenario un poco più complesso: c’è un Soggetto che sente e prova amore; e c’è un Oggetto prescelto ch’è oggetto del sentire e che è chiamato, per effetto di questo coinvolgimento (che, ripeto, è bifronte), in una relazione.

Ma che spazio c’è tra sentire e oggetto del sentire? C’è distanza tra amore e relazione? I due termini esprimono, in fondo, la stessa cosa?

Essendo costretto a degli statement iniziali, come ho già detto ribadirei che l’amore è il sentire più profondo, mentre la relazione è il rapporto che s’instaura tra il sentire e l’oggetto del sentire. Il primo (amore) dipende interamente dal Soggetto che lo prova in sé, il secondo (relazione) dall’interazione, o più precisamente dalla gestione della relazione tra Soggetto e Oggetto.

Tuttavia è innegabile che, seppure il sentire sia appannaggio del Soggetto, nasca a causa di un un agente esterno al soggetto. Questo causa i problemi più difficili da sbrogliare, e non solo a livello razionale, come si può capire. Quindi, il problema che in genere ci si pone, non solo per la natura eziologica del fenomeno quanto per le problematiche che ne derivano, è di capire se il sentire vada staccato dall’oggetto o meno. Le filosofie orientali, in genere, separano la dipendenza del Soggetto dall’Oggetto, e investono in un percorso di crescita e di emancipazione, fino ad arrivare alla liberazione dalle passioni e dalle emozioni, che destabilizzano e perturbano l’ecosistema del Soggetto. Al contrario, la cultura e la psicologia occidentale si limita ad emancipare l’io dalle dipendenze affettive di natura patologica, indicando un percorso di maturazione che è più orientato al riconoscimento e alla gestione sana, piuttosto che al superamento, delle passioni.

In ogni caso il problema è stabilire spettanze e reciprocità di ciò che sente di più puro e profondo l’essere umano, e del suo rapporto col prossimo più prossimo. E non è facile, perché i confini non sono netti.

Dunque: davvero il sentire va staccato dal suo oggetto? In generale, ma fino ad un determinato livello di approfondimento, non oltre, posso acconsentire a questo asserto. L’amore è ciò che accade dentro, e sebbene sia acceso da un oggetto che sta al di fuori, è anche vero che l’accensione avviene perché c’è, quantisticamente, una predisposizione, una possibilità. Nessun Oggetto di fuori può far cadere innamorato un Soggetto e il suo di dentro se quest’ultimo non è in qualche modo predisposto a quell’Oggetto.

Allo stesso modo, se l’Oggetto che ha destato amore scompare, si ritrae, cambia idea e passa dall’amore all’odio, oppure muore… è altrettanto incapace di sradicare ipso facto il sentire dal Soggetto che lo prova. Una buona copiosa parte di tutti i trattamenti psicoterapici vertono sul razionalizzare i meccanismi che s’instaurano tra sentire e oggetto del sentire, nella speranza (certamente mirabile, ma in gran parte vana) che la componente razionale plachi il dolore della componente irrazionale. Ciò significa che il sentire è una proprietà dell’essere, non del suo Oggetto.

Questo, dicevo, fino ad un certo punto. Perché c’è un ma.

L’amore non può vivere nel Soggetto, perché se no sarebbe narcisismo, ed il narcisismo è sia incapace di amore (di provare, sentire) sia di relazione con l’amato (di riconoscere l’oggetto e di darsi).

Ma per contro: può l’amore provato dal Soggetto sussistere senza il suo Oggetto, senza impazzire? Certo che può farlo, ed anche per sempre, inteso umanamente: ma solo se l’Oggetto era, diciamo, quello giusto, e se le cause del venir meno non sono imputabili direttamente né al Soggetto né all’Oggetto. Abbiamo una copiosa sequela di queste evenienze.

Ma cosa accade in quei casi in cui l’Oggetto si scopre non esser, diciamo, quello giusto, intendendo la giustezza nella reciprocità e nell’incontro? Ecco, diremo allora che viene meno il requisito più fondamentale dell’amore: stare nella verità del sentire. È dunque vero che il sentire del Soggetto non può dissolversi ex abrupto al disvelamento dell’oggetto sbagliato, ma è altrettanto vero che la fame di nutrimento del sentire, lasciato lì a boccheggiare, ha fisiologicamente bisogno d’esser appagata in qualche modo.

Ma anche qui c’è un ma, forse anche più importante del primo.

L’elaborazione della morte dell’Oggetto è il trauma che il Soggetto deve superare, perché amore e sentire sono orientate all’unicità e all’esclusività. La caduta dell’Oggetto scuote profondamente il sentire, perché il sentire è dedizione abnegante, è perdita di io verso il tu, è abbandono (attivo). Quando viene meno l’Oggetto viene meno il senso e la funzione del sentire. Non viene meno il sentire: viene meno il suo servire. È questo il trauma, perché il senso della vita è servire, inteso in tutti i sensi, ma tutti assieme, consapevolmente, volontariamente. Ciò significa che il senso è poter servire. E allora: il senso è connesso con l’abbandono dell’io, dell’essere, del Soggetto. L’orgasmo è il massimo consentito all’umano, in termini di abbandono.

Mancando l’Oggetto il Soggetto è costretto a ritornare in sé. È costretto all’autosufficienza, è costretto, anziché alla multidimensionalità della creazione, all’unidimensionalità della sopravvivenza. Il trauma è dato dal fatto che, conosciuto alla massima espressione il proprio significato realizzativo ed il conseguente generativo abbandono, il Soggetto è costretto a ritornare nell’asfittica prigione del sé. Si guarderà intorno ed ogni cosa sarà ovviamente priva di senso. Il trauma sta tutto nel dover forzosamente ridar valore primario a cose istituzionali (come lavoro, famiglia, amici, passioni…) che nel mondo dell’Oltre, da dove ritorna frustrato, erano state derubricate come secondarie. Dopo il grande lavorio e lo sforzo quasi sovrumano per ribaltare il mondo e dare priorità a qualcosa di rivoluzionario nella sua accezione più totale, il Soggetto è costretto a invertire i concetti chiave. Ma, dopo che si scopre chi è il vassallo, il vassallo il signore non lo può più fare! Tranne che nella farsa della sopravvivenza. E siamo al trauma, che si propaga nella falsità.

Quindi, quando l’Oggetto che ha acceso il sentimento viene a mancare per cause intrinseche, innesca una serie di reazioni a catena che metteranno il Soggetto a dura prova. Da questa prova si capirà la vera natura del sentire, il suo grado di maturità, ma per contro si farà luce anche sulla natura dell’Oggetto. Più cose rimarranno dopo questo redde rationem, più profonda sarà la capacità del Soggetto di abbandonare il suo oggetto inesistente e, successivamente, di guardare con occhi più profondi un Nuovo Oggetto.

 La colonna portante di questo focus sviluppato su un argomento molto gettonato, si sposta però anche su altre dimensioni, meno importanti ma non meno urgenti d’esser approfondite, come per esempio nella sfera del Lavoro. Chiaramente, la disfunzionalità del lavoro al giorno d’oggi, ci apre uno squarcio su un lato patologico, direi non solo individuale ma anche socio-antropologico –  del tutto opposto a quello dell’abbandono volontario che abbiamo osservato nel sentimento dell’amore -: il potere. Da cui certo non è escluso, sempre in termini patologici, quel sentire che non ha raggiunto la maturità.

cesare.grisi@willaboratory.com

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L’efficienza stupida

Contributo pubblicato su Scenari, 16/12/21 (Mimesis edizioni). Queste due immagini suggestive e ironiche, tema comune il caffè, hanno innescato una riflessione: se CAFFEINA = EFFICIENZA ➡ CAFFEINA = LAVORO, è magari il caso di fare un po’ il punto sull’equazione LAVORO = EFFICIENZA?
Il probabile esito è trovarsi a riflettere su quanto quel “do stupid things faster with more energy” sia azzeccato….

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